"Cosa cazzo lo volete, quello?"
La littorina avanzava lentamente sui binari sobbalzando mentre scendeva rullando col motore verso il mare. Il sole d'agosto finale si abbatteva sulla lamiera infuocata quasi a volerla sciogliere. Passeggeri ansimanti
accompagnavano la lenta corsa rincorrendo inesistenti refoli d'aria. Due carabinieri addumati dal caldo delle loro giubbe guardavano torvi lui, stretto chino tra i due, le manette tintinnanti che attiravano lo sguardo sudato e partecipante dei viaggiatori.
Lui, chiuso in una giacca che soffriva da un mese la galera, con la paura negli occhi e nel cuore di chi stava perdendo la vita ritrovata.
Un uomo tranquillo, mai una parola fuori posto. Un forastieru, venuto malato in quel sanatorio di un paesino sperduto nella Serra calabrese che lo aveva salvato, TBC, che si era portato via amatissimi fratelli. La vita per lui, troppo giovane per fare la guerra del 15 e troppo vecchio per fare quella, era cambiata. Vallechiara fu un cerchio chiuso: salute, lavoro proprio nel sanatorio, e l'amore dagli occhi di brace di Iole, passione prima che amore. Quattro figli, uno portato via da una epidemia che annunciava la guerra a un anno e mezzo, Angelo suo. Altri piccoli che Iole accudiva con energia, Mario, 5 anni, Pina, 18 mesi e adesso Lisa, piccolo amore di 5 mesi.
E il lavoro, nel sanatorio con l'Avvocato che portava le notizie da Roma, che riferiva le novità a lui che parlava un italiano corretto e conosceva il mondo. Lo aveva preso in simpatia, l'Avvocato, e lui ricambiava svolgendo con puntualità e precisione incombenze sempre più delicate che si guadagnava lavorando.
Lo avrebbe aiutato adesso?
"Cosa cazzo lo volete, quello?". La frase, che gli era scivolata da dentro quasi di nascosto da lui, venne fuori di fronte ad una foto del duce che imperava ancora alla fine di luglio del '43 sulla scrivania del Comune. La sequenza delle scene che precedettero l'episodio incriminato lo poneva tragicomicamente al centro di una farsa dell'agonizzante regime fascista, che a Vallechiara resisteva ancora senza gli echi lontani del 25 luglio.
Il fatto fu il seguente:
La riduzione del razionamento con le tessere del pane provocò la reazione di tanti padri di famiglia Vallechiaresi, ormai alle prese con le ristrettezze belliche. Tanti padri che volevano spiegazioni, tutti, dal Comune. E lui davanti a tutti, il primo arrivato, e dietro di lui Cikk' e Ninu, giovane onesto e lavoratore, ma dotato di una gargia ampliata da una naturale prosa populista. E tanti altri incazzati per il pane.
E così la frase di getto lo trasformò nel leader involontario della rivolta, lo assurse agli onori della ribellione politica. A nulla valse il fatto, che lui aveva avuto come notizia certa dall'Avvocato, che Mussolini si era dimesso e addirittura era stato arrestato. Ai Vallechiaresi la cosa non risultò, e d'altronde la guerra li aveva solo sfiorati, solo un bombardamento alla stazione della vicina Pietraia. Troppo poco per distogliere gli onorati cittadini Vallechiaresi dal sonno littorio. Fu così che G.M. si ritrovò in prigione e, anche se Mussolini si era dimesso per davvero.
I giudici ritennero comunque di non dover scarcerare uno a testa di una adunata sediziosa, un sobillatore.
Quasi un mese passato nella prigione di Vallechiara lo sopportò, aiutato dal carceriere che era suo amico e da Ioluccia, che gli faceva avere tutto quello che poteva.
Ma adesso veniva trasferito a Catanzaro, e partire gli sembrò di morire.
E stava lì, accucciato tra due carabinieri intruciditi dal caldo.
Fame, fame, fame. Oddio come farò? La disperazione le stringeva il collo, tre mesi erano passati da quando suo marito era in prigione e arrivava ancora di più l'angoscia di non sapere cosa succederà ancora, perché non viene liberato. Fame nera non aveva avuto, ma adesso finivano i soldi e mangiare non si trovava nemmeno al mercato nero.
Da Catanzaro le facevano sapere di avere fiducia, che presto la situazione si sarebbe risolta con l'arrivo degli americani.
Col passare dei giorni le notizie si fecero più confuse, emergevano improvvise e cominciavano a sommuovere i sonnolenti ritmi paesani. L'armistizio, gli americani erano in arrivo, no, anzi, sono già arrivati e la guerra è finita. No, non è finita, Mussolini è scappato e si riprenderà il suo ammazzando tutti questi tradituri.
La cosa finì per Iole quando le arrivò la notizia dai Barillà, cugini di Catanzaro a cui era stato affidato il compito di seguire l'iter giudiziario di G.M. che il marito da lì a pochi giorni sarebbe stato scarcerato.
Fu così che pianificò l'epica del viaggio.
Partì di sera, da casa della madre, dove lasciò due dei figli, e la terza, troppo piccola se la portò in braccio, come una Madonna dolente e attenta. Partì su un carro trainato a cavalli, guidato da un paesano a cui affidò una parte dei residui risparmi.
Contava di arrivare a Catanzaro il giorno dopo e aveva fatto avvertire i parenti per avere una stanza in albergo.
Fu un viaggio indescrivibile, tra paura e speranza, il viaggio per riprendersi il suo uomo.
Cinquanta chilometri. Fu a un certo punto che si vide venire incontro un uomo con simulacri di stracci addosso che la vide e la chiamò. "Iole, non mi riconosci? Sono Peppino, ho traversato l'Italia e adesso sono tornato". Fu così che incontrò il fratello reduce di Russia e podista della speranza. Non ebbero il tempo per dirsi nulla, lei ansiosa di arrivare, lui che vedendo Iole ebbe la certezza del ritorno.
L'incontro chiuse definitivamente la sua guerra.
Arrivò a Catanzaro che era sera, sfinita lei, il suo accompagnatore e le bestie. Prese alloggio all'albergo e cercò finalmente di sistemare la piccola sul letto per la notte. Ad un certo punto un formicolio impressionante salì dalle lenzuola ed un esercito di cimici rivendicò il possesso esclusivo del letto. Aveva con sé un'asciugamano di lino, tirò un cassetto del comò e vi adagiò la piccola Lisa, che si addormentò placidamente.
Trascorse la notte assettata supa a seggia.
Il giorno dopo si avviò e l'epica del viaggio concluse con l'epica del film: un soldato americano, intenerito da quella giovane donna dolente con una bimba in braccio, le offrì la colazione in un bar al centro di Catanzaro, che a lei sembrò meravigliosa.
E se lo riprese il suo uomo. E lo spidocchiò felice per due giorni, il suo uomo.
G.M. riprese la vita di uomo tranquillo, tanto tranquillo da non nutrire alcun sentimento di vendetta verso i littori Vallechiaresi che lo avevano fatto arrestare, nel frattempo trasformati costituzionali.
G.M., un uomo tranquillo, che non poteva essere antifascista perché non era mai stato fascista. Ma un uomo liberamente spontaneo, e questo bastò per farne un antifascista.
Iole non è un nome di battaglia, il suo viaggio epico è stata l'unica missione svolta per conto della Resistenza, la sua e la nostra, e l'ha portata a termine.
Poi ne ha portato a termine anche un'altra, altrettanto epica, crescendo con G.M. una sterminata famiglia.
Di questo episodio c'è traccia solo nella memoria ristretta familiare, essendo labile la memoria collettiva delle infamie e delle ingiustizie commesse e subite. Ed è labile anche questa ricostruzione, fondata sulla memoria trasmessa e mai completata nei dettagli più spiacevoli.
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erreerre (giovedì, 25 aprile 2013 12:37)
Questo mi sollecita un altro ricordo familiare: il giorno del 25 aprile suonavano le campane a festa nel paese di mia nonna. Tutti erano felici. Poi bussarono alla porta, erano i carabinieri e lei capì prima che parlassero. Il figlio ventenne arruolato (non volontario) nell'esercito era stato ucciso in quelle fasi finali della guerra. Era una famiglia antifascista che aveva nascosto militari alleati in transito, con mio nonno punito dai fascisti per il rifiuto ad indossare la camicia nera, dove una ragazzina di dieci anni, mia madre, ascoltando, senza essere considerata un pericolo, una conversazione fra due fascisti che pianificavano un'azione corse a riferirlo al padre impedendone di fatto l'esecuzione, Questa famiglia che aspettava con ansia la liberazione dal fascismo, visse quella giornata anche e soprattutto nel lutto.