Provate a immaginare. Pareti bianche punteggiate da finestre. Un cortile quadrato con loggiati. E molte porte. Una di queste conduce a uno scalone davvero sontuoso. E a un grande ingresso pieno di luce, da cui si dipartono innumerevoli stanze. I pavimenti fragili e preziosi sono protetti da tappeti, tecnicamente detti “corsie”. I camini sono rivestiti di marmo, e non fumano più. I soffitti ricoperti di animali, piante e ghirlande illusionistiche. I più vecchi da travi in legno. Non siamo nel Paese delle Meraviglie di Alice, purtroppo.
Questo posto si chiama museo.
Ci vivono e lavorano persone, tutti i giorni. Anche quando è chiuso al pubblico.
Quelli che lo hanno visitato sono rimasti senza fiato. Molti ancora non sanno che esiste, non sanno che è proprietà dello stato. Cioè di tutti noi. Patrimonio pubblico comune, nel senso più alto del termine.
Eppure qualcuno se ne dimentica. Sempre più spesso.
Siamo nell’epoca dei tagli. Tagli al personale, tagli ai finanziamenti, tagli ai servizi. Con la scusa del risparmio, si taglia sulla cultura. Una storia vecchia, risaputa. Cosa succede nell’epoca dei tagli, oltre al pianto? Si cercano i finanziamenti privati. E i soldi si trovano, basta cercare nei posti giusti. Quando va bene i privati finanziano i restauri, e chiedono vetrine di visibilità. Un cartellone pubblicitario a cielo aperto. Una targa ricordo. Una presentazione riservata solo ai soci. Ingressi gratuiti. Articoli sui giornali. Ma quando si chiedono tanti soldi, la posta in gioco diventa più alta. Non si tratta certo di filantropia a buon mercato. Qualche volta chiedono una festa, un ricevimento, una cena per vip. Provate a immaginare di accogliere in casa vostra duecento persone per un ricevimento “galante”. E che siano piazzati tavoli ovunque, anche nelle stanze private, in camera da letto, nello studio, perfino nel bagno. Sareste contenti di questa convivenza? Non sareste forse un po’ preoccupati che queste persone possano rovinare i pavimenti, sporcare le pareti, toccare gli arredi? Non sono ospiti, ma estranei che hanno pagato esclusivamente per divertirsi in casa nostra.
In questi casi bisognerebbe essere tolleranti, e dotati di buon senso. Con la bella stagione non si potrebbero utilizzare stanze vuote al piano terra, oppure il cortile, e fare un buffet? D’altronde, se anche le madri più amorevoli organizzano altrove le feste di compleanno dei loro bambini e degli amici, ci sarà un motivo ragionevole. Conosciamo le conseguenze. Non siamo ipocriti. Abbiamo pure la scusa che l’edificio dovrebbe essere salvaguardato perché è antico. Potremmo porre delle condizioni vantaggiose, evitando di fare brutte figure.
Ma la questione cambia di prospettiva. Perché chi dovrebbe dettare le condizioni non lo fa, anzi sembra quasi che debba “ringraziare” ed elargire favori per dimostrare la propria riconoscenza. E allora il museo diventa improvvisamente una location. Come accade a certi vecchi palazzi durante le mostre del cinema a Venezia e a Roma, quando ospitano le feste dei vip. Eppure stiamo parlando di un museo.
Chi dovrebbe proteggere, sorvegliare, salvaguardare, spesso non lo fa. Qualche volta si chiama connivenza. Esistono ragioni sciagurate e diffuse per questo malcostume. Il bene culturale è trattato come merce di scambio. Questo è il primo motivo. Il bene culturale è visto come qualcosa che si può vendere e mercanteggiare. Parlano chiaro in questo senso le politiche economiche recenti e passate, quando sono stati messi all’asta immobili di ogni genere per fare cassa, dagli antichi monasteri dismessi ai castelli, dai palazzi alle caserme, dalle isole ai parchi.
Manca nelle istituzioni e nel cittadino la concezione che il bene culturale è risorsa e patrimonio pubblico. Vale a dire nostro per diritto. Pertanto non si può né si deve vendere. Fino a quando saremo nelle mani di amministratori pubblici privi della conoscenza di queste norme fondamentali, non ci saranno investimenti nella cultura. E arriveranno messaggi distorti ai cittadini. L’assenza colpevole dello stato comporta la proliferazione di una miriade di associazioni più o meno benefiche, sempre meno di volontariato, che occupano il posto vacante delle istituzioni, fino ad appropriarsene e a dettare le politiche economiche culturali, perché economia e cultura vanno ormai di pari passo, in un binomio che spesso schiaccia la seconda a vantaggio della prima. Dobbiamo ricominciare ad essere fruitori, e non consumatori di cultura. Una piccola e semplice regola del buon vivere comune.
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