Anche quest’anno è sbarcata a Venezia la grande kermesse della Biennale d’arte contemporanea. Sei mesi di “rivoluzione culturale” in cui la città si spoglia della veste un po’ noiosa di città gioiello d’arte antica per rifarsi il look dall’estetista, e indossare i panni di supercapitale alla moda. E come sempre accade ogni due anni, per l’occasione si libera
senza indugio del pesante fardello immutabile della sua storia, del suo vissuto e dei suoi luoghi sacri per offrirsi senza freni inibitori al godimento della cultura del progresso. Prima arriva la carovana di curatori, esperti, galleristi, giornalisti e opinionisti, che costruiscono i loro apparati effimeri in ogni luogo, usando senza indugio e limitazioni di sorta gli spazi di chiese, palazzi, musei, università, biblioteche, fondazioni e alberghi, che diventano i luoghi “personali” dell’arte contemporanea trionfante.
Poi parte l’attività di promozione e festeggiamento di artisti dai nomi talvolta sconosciuti e talvolta impronunciabili, di ogni età e paese, nelle feste d’inaugurazione dove si beve, si mangia, si balla e si fanno relazioni sociali. Insomma, ci si diverte e si fa cultura “easy”. Poi arrivano in massa i turisti “all around the world”, che muniti di piantina vanno a caccia di queste piccole grandi esposizioni disseminate in città, note come “partecipazioni nazionali” o “eventi collaterali”. Possono sembrare parole dal significato vagamente ambiguo, ma solo per i non addetti ai lavori.
Ma tutto questo, fa crescere Venezia? La città necessita davvero di questa salutare botta di vita? Si apre veramente alla conoscenza e alla cultura internazionale? Sono forse domande retoriche e garbatamente polemiche, perché chi vive la città e nella città si accorge che il cambiamento rimane solo di facciata. Di tutta questa contemporaneità, nulla resta e nulla contribuisce a trasformare la città, perché quasi tutto si riduce al gossip e a qualche polemica sull’irriverenza delle nuove forme d’arte, a qualche performance sopra le righe, a qualche dibattito fine a sé stesso.
Forse dovrei svecchiarmi e smetterla di essere così seria. La cultura dovrebbe anche essere leggerezza e divertimento fine a sé stesso, perché nonostante tutto è lo specchio della società in cui viviamo. Per questo, magari, faccio fatica ad accettarla così com’è e a comprenderla fino in fondo. Però non sono ipocrita, pertanto dico che guardo spesso con curiosità le esposizioni della Biennale d’arte contemporanea a Venezia, non le rifiuto ma a mio avviso gravitano nell’ottica di un grande parco dei divertimenti. Più o meno riuscito, a seconda delle edizioni. E questo non può bastare.
Si potrebbe fare molto di più per essere rivoluzionari: per la città, per i suoi luoghi e per i suoi abitanti. Perché nessuno pensa a “usare” l’arte contemporanea per rivitalizzare Mestre e Marghera come sedi espositive accanto a Venezia? Perché la Biennale di arte contemporanea non costruisce un dialogo “moderno” con i luoghi in cui va ad abitare? Perché non ricerca la vera “rottura” e si accontenta di essere una “vetrina”?
Venezia resta sullo sfondo. Le sue crepe, i suoi muri che si sbriciolano, i suoi palazzi “eccezionalmente aperti” in questo periodo e poi destinati a chiusura permanente, e non al pubblico godimento. Che cosa rimane dopo la Biennale? L’immondizia da smaltire, le pagine dei giornali, l’illusione di un gioco che può piacere o non piacere, ma si consuma in fretta e non lascia traccia permanente.
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daniela capacci (domenica, 09 giugno 2013 18:06)
per gli artisti....l'arte è finita ....l'uomo è finito....o si ha la forza di rinascere o siamo destinati all'estinzione